9 parole italiane intraducibili secondo la nostra community
Una selezione di parole ed espressioni italiane che non si possono tradurre, a detta di chi sa tradurre
Ti è mai capitato di dover spiegare il significato di “buon lavoro” o la differenza tra “ti amo” e “ti voglio bene” a una persona di un altro paese? Allora saprai che anche l’italiano ha numerose parole ed espressioni intraducibili in altre lingue. Leggi quelle che abbiamo selezionato grazie all’aiuto della nostra community.
Il sapore delle parole
Non serve lavorare nel campo della traduzione per sapere che non tutte le parole si prestano a una traduzione esatta. Da una lingua all’altra cambiano vocabolario, sintassi, fonetica e morfologia (una mancanza di corrispondenza definita anisomorfismo), per non parlare dei riferimenti culturali specifici di una zona o di un popolo. Ma come ogni volta che si parla di parole intraducibili, bisogna fare una premessa: l’idea stessa di intraducibilità può essere fuorviante. Il modo di rendere un vocabolo o un’espressione in un altra lingua spesso lo si trova, il problema è nella perdita di fluidità, immediatezza, tono o significato che avviene durante questo passaggio. Se vogliamo, le parole sono un po’ come i piatti tipici di un paese: li può riprodurre chiunque in ogni parte del mondo, ma non è detto che il sapore sia paragonabile all’originale. Se anche a te è venuta in mente una pizza con l’ananas, hai capito cosa intendiamo.
A differenza del nostro articolo sulle 10 parole intraducibili dal tedesco, per stilare un elenco di parole ed espressioni italiane intraducibili abbiamo chiesto aiuto alla nostra community su Facebook, Instagram e Twitter. In questo articolo ti presentiamo quelle citate con maggior frequenza. Fra le molte risposte ricevute, abbiamo deciso di escludere sia regionalismi, parolacce ed espressioni colloquiali: queste parole sono spesso troppo creative o specifiche per trovare una traduzione adeguata in una lingua straniera (o addirittura in italiano comune). Cominciamo!
1. Abbiocco: pisolino postprandiale cercasi

Come riporta la Treccani, abbiocco è una voce regionale che dall’Italia centrale si è diffusa nell’italiano comune e deriva da “biocca”, ossia chioccia. In origine “abbioccarsi” significava “rannicchiarsi” come la gallina che cova le uova, ma presto ha assunto l’accezione di “assopirsi”. Oggi con abbiocco si intende uno stato di sonnolenza improvvisa, tipico dei momenti successivi a un pasto abbondante. Appisolarsi dopo un pasto è un’esperienza molto umana, e a guardar bene troviamo espressioni come food coma in inglese, oppure Schnitzelkoma, Suppenkoma e Fressnarkose in tedesco. Ma differenza di queste parole, l’abbiocco non è necessariamente legato al cibo. In qualsiasi caso, nulla che un secchio di caffè non possa risolvere.
2. Boh: la sillaba del dubbio

Super concisa e molto frequente nel parlato, boh è un’interiezione che serve a esprimere incertezza o incredulità. È possibile renderla variamente con un “non lo so”, “chi lo sa” o “non ne ho idea”, ma ammettiamolo: queste versioni non hanno la stessa espressività. Perfino l’attore e insegnante John Peter Sloan la annoverò tra le sue parole italiane preferite, dichiarando di usarla anche quando parlava inglese. La particolarità di boh è che veicola un significato leggermente diverso a seconda del contesto e del tono di voce: l’accento può cadere sull’impossibilità di conoscere la risposta oppure sullo scetticismo dell’interlocutore, per esempio. Non a caso, le lezioni di italiano online spesso includono una miniguida al corretto utilizzo di boh, con tanto di spiegazione sul tipico gesto di accompagnamento: bocca all’ingiù, scrollata di spalle e alzata di mani.
3. Mica: insidiosa come le briciole

Umili origini per questo avverbio: in latino la mica era una briciola di pane. Riappare nell’italiano settentrionale michetta, un tipo di pagnotta, e nello spagnolo miga, cioè mollica. Si usa come rafforzativo in frasi negative (“Non sono mica stata io”, cioè neanche una briciola, neppure un pochino), ma ha anche valore avverbiale e si usa per affermare con forza qualcosa negando il suo contrario: “Mica male questo articolo!”. E proprio come le briciole, mica può finire dappertutto, persino nelle domande, talvolta gentili come “Hai mica un minuto libero?”, talvolta retoriche o incredule come “Non avrai mica mangiato tutta la torta?!”. Mica facile tradurla sempre col tono giusto.
4. Magari: alla ricerca della felicità
La parola magari deriva dal greco antico μακάριος, che significa “felice”. Serve a esprimere un forte desiderio, spesso sottintendendo il suo carattere irrealizzabile, un po’ (ma non troppo) come ojalá in spagnolo o I wish in inglese. Svolge anche funzione avverbiale come sinonimo di “forse”: se ci invitano a una festa ma non possiamo andare, rispondiamo che magari sarà per un’altra volta. Sembra facile, ma a causa della varietà di sfumature che può assumere – augurio, speranza, rimpianto, dubbio –, magari è un’altra di quelle espressioni italiane difficili da rendere in un’altra lingua. Una recensione uscita su Variety del film Magari (2019, diretto da Ginevra Elkann) fa notare come la traduzione inglese del titolo, divenuto If Only, abbia perso un po’ di carattere rispetto all’originale. Come non essere d’accordo.
5. Ti voglio bene: m’ama o non m’ama?

Le espressioni ti voglio bene e ti amo fanno entrambe capo alla sfera affettiva, ma hanno usi diversi: in genere ti voglio bene si dice in famiglia o a una persona molto cara, mentre ti amo è riservato alle relazioni romantiche. In tedesco troviamo una differenza simile fra ich habe dich lieb e ich liebe dich; e andando parecchio indietro nel tempo non possiamo non nominare Catullo, che nel carme 72 distingue amare (in questa accezione, amare con passione) da bene velle (voler bene). Molte lingue però non operano la stessa distinzione, comprese… le nostre lingue regionali. Come possiamo vedere da diverse discussioni online, in vari dialetti l’espressione “ti amo” non esiste o è poco diffusa, mentre la nostra community ci ha svelato che il friulano è privo del verbo “amare”. Come si fa a non amare le lingue?
6. Mi raccomando: la prudenza non è mai troppa

Il vocabolario registra varie accezioni del verbo raccomandare, tutte in qualche modo legate all’idea di affidare qualcosa a qualcuno, oppure di consigliare vivamente qualcosa. La forma riflessiva mi raccomando è divenuta un’espressione idiomatica: esorta a prestare particolare attenzione, a svolgere con cura un compito, a comportarsi bene. La persona che parla sta affidando sé stessa alle cure dell’altra, insomma: si sta mettendo nelle sue mani, contando sul suo riguardo. Ecco perché il mi raccomando è un grande classico dei genitori italiani: dal “Mi raccomando, fai il bravo”, al “Mi raccomando, copriti bene ché fa freddo”, senza dimenticare il laconico “Mi raccomando” senza ulteriori specificazioni, avvertimento universale utilizzato per ogni evenienza e situazione. La risposta alla domanda “Ma mi raccomando cosa?” è uno dei segreti meglio custoditi dopo quelli di Fatima.
7. Raccomandato: conta chi conosci

Al participio passato il verbo raccomandare assume una sfumatura meno… raccomandabile. Infatti, un raccomandato è una persona che ha raggiunto un certo posto o carica attraverso l’influenza di conoscenze personali ben collocate, piuttosto che grazie alle proprie qualità. L’italiano non è l’unica lingua con una parola per descrivere il fenomeno: in spagnolo si parla di enchufado (letteralmente “allacciato”), in francese di pistonné (“spinto da un pistone”). In altre lingue, invece, manca una corrispondenza esatta. E non bisogna confondersi con la recommendation inglese, che non ha una connotazione negativa, ma corrisponde a una lettera di raccomandazione o di referenze. Per le traduzioni, ti consigliamo sempre di affidarti a chi ha le competenze giuste – ed evitare i falsi amici.
8. Bella figura e brutta figura: l’arte dell’apparire
Non importa in che parte del mondo mi trovi, con chi sia o che cosa faccia: se le mie scarpe mostrano segni di usura o hanno una minuscola macchiolina, sento tuonare il rimprovero di mio padre “Le scarpe sciupate non si mettono!” Il rischio, naturalmente, è di fare brutta figura. La bella figura e il suo opposto, la brutta figura o figuraccia, rappresentano due cardini dell’animale sociale italiano: sono l’impressione che diamo di noi agli occhi del mondo. Possono sia avere una connotazione morale, sia riferirsi a un ambito mondano: si fa bella figura vestendo bene, ma anche compiendo un atto nobile; si fa brutta figura a non ricambiare un favore, ma anche a mettere il ketchup sulla pastasciutta o a commettere un clamoroso errore di traduzione davanti a una persona madrelingua. Conosci la sensazione?

9. Buon lavoro: il saluto delle formiche operose

La formula buon lavoro si usa per augurare il felice svolgimento o continuazione di un’attività. Oltre a comparire in chiusura a comunicazioni scritte di ambito professionale, si trova nel parlato in contesti diversi, ad esempio come incoraggiamento o come cortese riconoscimento del fatto che la persona che stiamo salutando ha ancora lavoro da svolgere. Con un significato simile abbiamo bon travail in francese e iyi işler in turco, ma in molte altre lingue una resa incauta può causare incomprensioni. In inglese o in spagnolo, per esempio, l’espressione good job o buen trabajo va considerata un falso amico, poiché serve a complimentarsi per un lavoro già svolto: dirlo prima ancora dell’inizio sarebbe un po’ troppo ottimista.
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Gran bella casistica di parole difficilmente adattabili agli estranei della nostra lingua!
Grazie!
Anche “allora”, nei suoi diversi usi, mi ha creato non pochi problemi con i colleghi stranieri
Trovo espressioni tipo “Buon lavoro” o “Ti voglio bene” traducibili almeno in certe lingue (in tedesco ad es.: “Frohes Schaffen” e “Ich mag Dich”, o “Ich habe Dich lieb”). Altre parole invece (“Convivialità”, “Emotività”) le trovo più difficili…