5 domande ad Alberto Puliafito
Giornalista, formatore e promotore dello slow journalism
Un errore di traduzione può trasformarsi in una fake news? Si può lavorare meno e meglio senza ritrovarsi fuori dal mercato? Come possiamo riappropriarci del nostro tempo in un mondo che corre all’impazzata? Ha risposto per noi a queste e altre domande Alberto Puliafito, giornalista, formatore e direttore della piattaforma di informazione indipendente Slow News.

Cosa provi e cosa pensi quando leggi un articolo che descrive una notizia in modo sciatto o contiene una TDM?
Devo fare una confessione: da molto tempo ho adottato una strategia di dieta radicale nel consumo di news. Cerco di evitare tutto ciò che so a priori essere potenzialmente un contenitore di notizie sciatte (per velocità di esecuzione, spazi da riempire, tempi, budget, scelte e via dicendo). Questo implica privarsi dei telegiornali e delle all-news e della stampa italiana cosiddetta mainstream e potrebbe far pensare che io sia poco informato. In realtà, da quando ho intrapreso questa dieta posso dedicare molto più tempo a quel che conta veramente. Questa strategia, di solito, mi impedisce di essere raggiunto troppo spesso da una notizia sciatta.
Però è impossibile esserne completamente immuni, soprattutto se si lavora su piattaforme digitali. Quando trovo un articolo sciatto (che per me vuole anche dire che fa leva su emotività, paura e altri cliché tossici del giornalismo contemporaneo) o una TDM penso sempre: “Speriamo che non ci trasciniate definitivamente nel baratro e che i danni che fate con questo tipo di contenuti si ripercuotano solo su di voi”. Perché sono convinto che ogni articolo sciatto, ogni TDM siano tutti elementi che contribuiscono alla crisi in cui versa il giornalismo.

Una traduzione sbagliata o anche solo imprecisa può trasformarsi in una fake news e contribuire a diffondere disinformazione. Ti viene in mente un caso in particolare in cui è avvenuto?
Se mi permetti di usare il concetto di traduzione in un senso molto lato, ti posso dire che succede tutte le volte che qualcuno cerca di “tradurre” (cioè di riadattare) un fatto alla propria griglia schematica di interpretazione della realtà. Omettendo contesto, esagerando interpretazioni. Questo succede talmente tanto spesso che diventa difficile fare esempi specifici. Soprattutto, non voglio concentrarmi su un singolo caso o su quelli che poi passano come epic fail e di cui parlano tutti, perché poi va a finire che si attribuiscono responsabilità ai singoli e sembra che si tratti di gaffe, mentre deve passare forte e chiaro il concetto che si tratta di un problema sistemico sul quale non si riflette mai abbastanza. Questo post di Mario Tedeschini-Lalli, secondo me, è perfetto per fare un esempio chiaro:
Nota ai colleghi che si occupano in questi giorni dei “dreamers” e della decisione di Donald Trump di cancellare la legge Obama che chiudeva un occhio sui minori arrivati senza visto negli Stati Uniti: “to deport” e “deported” non andrebbero tradotti con “deportare” e “deportati”, ma con “espellere” ed “espulsi”.
Ma, appunto, non avviene soltanto quando passi da una lingua all’altra.


Uno degli articoli sul tuo sito è dedicato al monotasking e inizia così: “Qual è l’ultima volta che hai messo su la moka per fare il caffè e hai semplicemente aspettato che il caffè uscisse?” Quindi ogni mattina passi 5 minuti a fissare la moka con le braccia conserte? Come fai a resistere alla tentazione di fare altro nel frattempo, anche solo scorrere il feed di Facebook o Twitter?
No, purtroppo non ci riesco, non tutte le volte che vorrei (e spesso prendo il caffè al bar). Ma da almeno tre anni ho disattivato tutte le notifiche su qualsiasi dispositivo elettronico io usi e mi sono allenato a resistere alla tentazione di consultarli compulsivamente, con il risultato che mi sono ri-generato un’abitudine sana, quella di fare una cosa alla volta. E ho riscoperto la bellezza di fermarmi a pensare.
Da qualche tempo nella mia routine quotidiana evito di accedere a qualsiasi tipo di contenuto (qualsiasi eh, anche libri) nella prima ora di veglia. Ho una sveglia normale. Se devo fare biglietti del treno li faccio il giorno prima. Quando mi sveglio faccio le cose che ci sono da fare, mi preparo, guardo i miei figli, ci parlo, parlo con mia moglie, penso, mi concentro su quello che sto facendo o lascio che i pensieri vaghino per conto loro. Il beneficio è gigantesco. E il risultato è che voglio accendere i dispositivi molto più tardi di prima e sono molto più concentrato quando li uso. Insomma: provo a usarli se mi servono. Senza ansie, però. Se sono stressato e voglio usare lo smartphone come scacciapensieri me lo consento.
[Abbiamo parlato di come gestire il sovraccarico cognitivo anche nell’intervista precedente a Vera Gheno]

I mali del giornalismo sono simili a quelli del mondo della traduzione: scadenze strette, ritmi forsennati, gente improvvisata che abbassa l’asticella della qualità e delle tariffe. Un modo per invertire la tendenza è fare meno e farlo meglio, ma prima di trovare un giornale o un’agenzia di traduzione che la pensi in questo modo possono passare anche mesi o anni. Nel frattempo, che fare per pagarsi le bollette?
È molto difficile. Quel che cerco di fare (da solo e con le persone con cui mi trovo bene a lavorare) è differenziare, fare tanti progetti, cercare di mettere insieme varie leve per sopravvivere, a volte lavoro meno e faccio meno perché ho scoperto che non è detto che aumentare ossessivamente il fatturato sia sempre una cosa positiva (a volte si può risparmiare). E tirare avanti finché reggo. Cerco anche di circondarmi di persone con cui condividere pezzi di percorso, dividere oneri e onori: è molto difficile, naturalmente. Infatti ad oggi ho una mia testata (fondata con colleghi splendidi) che si chiama Slow News, un progetto dedicato al fai da te, faccio il consulente e il formatore. E cerco di fare ognuna di queste cose meno e meglio. È molto difficile, appunto.
[Sempre a proposito di differenziazione, potresti leggere l’intervista di Marina Invernizzi di Langue&Parole]

Tolta qualche rara eccezione, i giornali italiani non godono di ottima salute. Si potrebbe trovare un colpevole nei lettori, che leggono sempre meno e quel poco che leggono lo vogliono gratis. Oppure nei giornali stessi, che investono meno in inchieste e spesso inseguono notizie usa e getta ricavate dai social network. Dove è iniziato il circolo vizioso?
Se parlassimo di un qualsiasi altro “prodotto” nessuno darebbe mai la colpa di una crisi di prodotto a chi lo “consuma”. Solo che qui parliamo di giornalismo e va a finire che si confonde la funzione del giornalismo come colonna portante della democrazia con la salvezza del singolo giornale: sono due cose molto diverse. E a me, per esempio, interessa dare il mio contributo a salvare il giornalismo come colonna portante della democrazia.
Non solo: nel giornalismo, per il modello di business scelto storicamente, il vero “cliente” non erano lettrici e lettori. Erano gli inserzionisti pubblicitari. Se vogliamo trovare un inizio, probabilmente il circolo vizioso inizia dal modello di business scelto, ma anche dal ruolo che i giornali hanno sempre avuto di oligopolio dell’informazione. Ad un certo punto, questo ruolo semplicemente gli è stato tolto dal fatto che ciascuno può produrre e disseminare contenuti. E quindi al modello di business scelto si è aggiunta l’illusione che sarebbe durata per sempre, che l’oligopolio si potesse mantenere (o ricostruire per legge). Aggiungiamoci scarsa propensione all’ascolto (dico spesso che il giornalismo italiano è fatto a forma di maschio bianco paternalista maschilista autoritario benestante egocentrico narcisista), scarsa propensione a investire in ricerca e sviluppo, il digitale frainteso, le competenze non valorizzate (o non costruite), svariati errori strategici ed eccoci qua.
Questa intervista fa parte della serie 5 domande. Facci sapere cosa ne pensi nei commenti oppure sulle nostre pagine Facebook, Instagram e Twitter.