5 domande a Vera Gheno
Traduttrice e sociolinguista specializzata in comunicazione digitale
Come fa una professionista super-impegnata a non sentirsi in difetto come madre? Come si esercita la lentezza in un’epoca in cui le informazioni viaggiano a una velocità mai vista prima? Cosa può insegnarci la lingua sul vivere in comunità? Ha risposto per noi a queste e altre domande Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale, traduttrice, docente universitaria e collaboratrice di Zanichelli.

Cosa provi e cosa pensi quando vedi una TDM o uno strafalcione di italiano clamoroso?
Penso che qualcuno, nella filiera che ha portato alla creazione di quel prodotto, abbia sottostimato l’importanza dell’aspetto linguistico: che non ci sia stato un correttore di bozze o un editor, o che la traduzione sia stata affidata a una persona poco competente, magari per risparmiare un po’. E ovviamente mi adombro, perché penso che chiunque realizzi un prodotto (che ha delle componenti linguistiche) destinato a un pubblico ampio dovrebbe sentire una grande responsabilità nei confronti del proprio ruolo di “megafono”.


Facciamo sempre più fatica a ritagliarci a immergerci nella lettura, e inevitabilmente questo incide sulla nostra capacità di scrivere. Come si può esercitare la lentezza in un momento in cui le informazioni viaggiano in una quantità e a una velocità mai vista prima?
L’informazione, oggi, è quasi come se fosse un buffet sovraccarico, come quello dei matrimoni. O pensiamo bene a cosa vogliamo mangiare e bere, o finiamo per sentirci male e non goderci nemmeno ciò che scegliamo di consumare. La nostra dieta mediatica dovrebbe funzionare in maniera simile: scegliere oculatamente ciò che davvero desideriamo consumare, contenerci sulle cose che mangiamo e beviamo per gola, evitare, insomma, di strafogarci per la pigrizia di non scegliere.
D’altra parte, al di là dell’oggettiva velocità del passaggio di un qualsiasi messaggio elettronico da A a B, questa non costringe in alcun modo noi a esserlo altrettanto. Insomma, possiamo riprenderci il lusso di riflettere un attimo di più sia su ciò che leggiamo sia su ciò che “emettiamo”. E solo noi possiamo farlo: non devono essere altri a creare le condizioni perché questo succeda.

Dei dialetti italiani si dice spesso che stanno morendo o addirittura sono già morti. A giudicare dalla partecipazione alla nostra iniziativa Spazio al dialetto, si direbbe che quantomeno sono ancora molto conosciuti, anche se forse non così praticati a livello orale e scritto. Sai dirci come se la passano davvero?
Non penso che stiano morendo. Hanno passato momenti peggiori, quelli in cui il loro impiego era davvero stigmatizzato (a scuola si veniva puniti se si “osava” accennare a mezza parola in dialetto), mentre adesso qualunque esperto spiega che la competenza linguistica si forma per aggiunta e non per sostituzione, e che di conseguenza non c’è bisogno di eradicare nulla. Chiaramente, il problema maggiore del dialetto è che lo usiamo in un numero ridotto di contesti, e questo può contribuire al suo indebolimento. Ciononostante, è un buon primo passo per la sua conservazione che non lo si ritenga più una lingua “sfigata”, da nascondere a ogni costo, ma piuttosto una lingua da impiegare senza troppi problemi almeno in alcuni contesti (famiglia, amici del posto, eccetera).


Nel 2019 hai scritto e presentato in giro per l’Italia 5 libri. Hai partecipato a festival e trasmissioni televisive e radiofoniche, tenuto lezioni in università e scuole, perso ore di vita dietro a treni in ritardo. In altre parole, hai dedicato molto tempo al lavoro e sei stata molto tempo lontana da casa. Ti sei mai sentita in difetto come madre?
Continuamente. Del resto, non è che la società faccia nulla per rendere più semplice e naturale il distacco fisico di una madre dai figli. Ci si aspetta che una madre si comporti in un certo modo, dando maggiore importanza al fatto di essere, per l’appunto, mamma, piuttosto che alla sua carriera. Se un padre è spesso in trasferta per lavoro, è molto meno vittima di un qualsiasi stigma sociale: è un uomo in carriera e la famiglia, figli compresi, si deve adattare. Ci si aspetta anche che una madre si vesta “da madre” (penso solo a tutte le volte che Chiara Ferragni viene ripresa per i suoi outfit “non adatti a una madre” con frasi come “pensa a tuo figlio”: ovviamente è un atteggiamento di riprovazione sociale che assolutamente non condivido). Io stessa vengo spesso colpevolizzata per le mie numerose assenze da casa. L’unica, di fatto, che non mi colpevolizza, è proprio mia figlia: ha dodici anni, è abituata a vivere una vita un po’ nomade tra casa mia, casa del padre e case dei nonni (perché, ovviamente, mi posso permettere questo stile di vita solamente grazie a una rete di supporto familiare alle spalle) praticamente da sempre; ciò non toglie che a volte la situazione pesi sia a lei che a me. In questo momento, per vari motivi, giro sin troppo, e tutte le volte non vedo l’ora di tornare a casa. Ma è la mia vita, è il mio lavoro e sono i miei libri; essere sempre in viaggio è molto meno glamour di quanto non possa sembrare da fuori, ciononostante devo ammetterlo: a me, quando non esagero, piace proprio vivere così. E quindi, anche grazie al saldo supporto del mio analista, non rinuncio a vivere così e non cedo ai sensi di colpa.
[Per capire meglio il contesto di questa domanda, leggi questo saggio di Natalia Ginzburg]

Le lingue sono sistemi aperti e in continua evoluzione, anche grazie agli apporti esterni. L’italiano ad esempio è molto accogliente nei confronti di forestierismi ed espressioni dialettali. Quando si tratta di persone, però, la soglia di tolleranza sembra molto più bassa. Cosa può insegnarci la lingua sul vivere in comunità?
Uno dei tre scopi della lingua, a parte quello di compiere atti di identità individuali e “decodificare” il mondo che ci circonda, è quello di instaurare relazioni con gli altri esseri umani. Siamo animali sociali, lo sappiamo bene. Questo vuol dire che ogni volta che ci relazioniamo con gli altri possiamo usare la lingua per “creare ponti” o per menare fendenti. Quando una persona non parla come noi, istintivamente la percepiamo come un estraneo che non fa parte della nostra “tribù”. E tutto questo è estremamente biologico. Poi, con le sovrastrutture educative, con il ragionamento, impariamo che non è detto che chi parla un’altra lingua sia per forza un nemico. Ciò non toglie che chi parla lingue diverse ha visioni leggermente diverse della realtà, per cui, ogni volta che ci rapportiamo con qualcuno che non parla come noi, dobbiamo fare uno sforzo di comprensione non solo linguistica ma sociale, culturale, umana.

Posso usare le mie competenze linguistiche in maniera inclusiva o in maniera esclusiva, e questo richiede, chiaramente, uno sforzo. La domanda che mi pongo io oggi, sia come linguista che come persona cresciuta bilingue, è come si possa realizzare davvero la società multiculturale, dato che l’idea bella, ma forse idealistica, del melting pot, mi pare che non abbia portato frutti davvero apprezzabili. Detto questo, l’autarchia linguistica non è certo un modo per risolvere alcun tipo di problema. Le lingue subiscono contaminazioni reciproche e questo è naturale, bello e anzi segno della loro vitalità.
Questa intervista fa parte della serie 5 domande. Facci sapere cosa ne pensi nei commenti oppure sulle nostre pagine Facebook, Instagram e Twitter.
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