5 domande a Marco Cevoli e Sergio Alasia
Titolari dell’agenzia di localizzazione Qabiria e gestori della community DiventareTraduttori
Le agenzie sono davvero la nemesi dei traduttori? La localizzazione è un settore che premia più le competenze tecniche di quelle linguistiche? Quanta distanza c’è fra ciò che si insegna all’università e la professione di traduttore? Hanno risposto per noi a queste e altre domande Marco Cevoli e Sergio Alasia, titolari dell’agenzia di localizzazione Qabiria e gestori della community DiventareTraduttori.

Cosa provi e cosa pensi quando vedi una TDM?
[Marco] Ti potrei dire che m’indigno e penso a come viene poco valorizzato il nostro lavoro, ma ti mentirei. Il bello e il brutto delle traduzioni è che c’è spazio per tutti. Non sono poi tante le volte in cui gli erroracci di traduzione hanno ripercussioni sull’attività. Mi spiego meglio: se al ristorante di terza categoria scrivono sul menu “impetata di cozze con arancione”, non credo proprio che abbiano meno commensali per colpa di quell’errore. Purtroppo però, l’amor proprio del traduttore è smisurato, per cui gli (ci) piace credere il contrario, che tutto quello che traduciamo sia di importanza vitale, quando molto spesso non lo è affatto.
[Sergio] Di solito invece la mia reazione è divertita, e nei casi più curiosi diventa anche un gioco per capire come sono arrivati a una certa TDM.


Gestite DiventareTraduttori.com, un sito di domande e risposte sul mondo della traduzione frequentato da studenti, neolaureati e aspiranti professionisti. Quanta distanza c’è fra ciò che si insegna all’università e ciò che è la vita di tutti i giorni di un traduttore?
[Marco] Nonostante gli sforzi di tanti professori e di tante realtà accademiche d’eccellenza, la distanza da colmare è ancora molta. Da un lato è giusto che sia così: l’università non può e non deve correre dietro al mercato, altrimenti diventerebbe un sistema buono solo a sfornare manodopera. Dall’altro, è indubbio che alcune competenze fondamentali per un traduttore vengono affrontate molto di striscio, come ad esempio la gestione progetti, le questioni legati all’imprenditorialità, al marketing e alla strategia e, in molti casi, anche le competenze tecniche (software di traduzione, localizzazione, CMS, etc.), anche se qui si vedono segnali di miglioramento.
[Sergio] Io aggiungerei solo che negli ultimi anni abbiamo ospitato tirocinanti universitari con ottimi risultati, sicuramente siamo stati fortunati, ma questo vuol anche dire che il livello è comunque abbastanza alto e che le università sono in grado di offrire una formazione più pratica fuori dalle aule grazie ai progetti di scambio e alle borse di studio.

La localizzazione è un settore che richiede molte competenze trasversali. Devi essere smanettone, veloce e ben organizzato, super-specializzato oppure saperne un po’ di tutto senza in realtà sapere nulla. Non a caso, esistono molti localizzatori senza una laurea in traduzione o almeno in ambito umanistico. Questo settore premia più le competenze tecniche di quelle linguistiche?
[Marco] Non è soltanto la localizzazione che premia le competenze tecniche: il mestiere del traduttore (tecnico) ormai ha poco a che fare con quello che si svolgeva 15-20 anni fa. Chi non ha competenze tecniche è destinato a essere tagliato fuori dai giochi, se non lo è già. Mi fanno tenerezza quei luddisti che dichiarano orgogliosi di non aver mai usato la traduzione automatica o, peggio ancora, un CAT tool. Esistono due tendenze: da un lato i traduttori dovranno essere sempre più capaci da un punto di vista della resa linguistica, perché “per tutto il resto c’è Google”. Dall’altro, gli strumenti di lavoro sono sempre più evoluti e integrati e quindi è necessario padroneggiarli. E, per risponderti, sì, la localizzazione premia più le competenze tecniche. Non serve essere Italo Calvino per tradurre “Forgot your password?”, ma sì serve essere un po’ smanettoni per tradurre quella stringa rispettando il codice sottostante, i tag e tutte le implicazioni tecniche.

[Sergio] Secondo me le competenze tecniche sono molto rare nel nostro settore, perché in realtà spesso chi si “sporca le mani” è l’agenzia, con l’aiuto delle tecnologie a disposizione, cercando di dare al traduttore un testo pulito e già “masticato”. Io come project manager tendo a prediligere i traduttori che hanno abilità a 360 gradi, che sanno usare un OCR, impaginare un documento InDesign, oltre naturalmente a saper riconoscere e trattare nel modo giusto i tag e le variabili in un testo da localizzare. Ma quest’ultima abilità per me rientra nelle competenze linguistiche più che in quelle tecniche.

La logica della continuous localization ricorda un po’ quella della catena di montaggio: invece che essere raggruppati in progetti di media o grande dimensione, i contenuti vengono mandati in traduzione a ciclo continuo, divisi anche in singole frasi. Se abbinata ai CAT tool online o addirittura per dispositivi mobili, sembra quasi che l’industria chieda al traduttore di essere disponibile in qualsiasi momento e luogo per gestire al volo micro‑commesse pagate pochi centesimi. Davvero finiremo a tradurre con lo smartphone tra una fermata della metro e l’altra o mentre siamo in coda alla posta?
[Marco e Sergio] La tendenza è questa. Se i contenuti vengono prodotti a ciclo continuo, anche le traduzioni dovranno essere svolte in quel modo. Noi lavoriamo già da anni con almeno un grosso gruppo che pubblicizza il suo approccio “agile” alle traduzioni. Nella realtà non è così facile riuscirci, ma bisogna fare di necessità virtù. L’epoca dei progetti da 100.000 parole tutte assieme è finita da un pezzo, vuoi per l’incidenza sempre maggiore delle memorie di traduzione, vuoi per l’approccio che descrivi, vuoi anche per la vita utile dei contenuti, sempre più breve e sempre più soggetta a ricambio rapido (penso a un blog o a una newsletter). Quindi, magari alla fermata dell’autobus no, ma dovremo senz’altro ripensare il modo di essere retribuiti, perché la tariffa a parola o a cartella è sempre più staccata dalla realtà.


Spesso nei nostri meme prendiamo in giro le agenzie, ree di maltrattare i freelance con tariffe basse e scadenze impossibili. Vi diamo la possibilità di risponderci per le rime (ma senza insulti!).
[Marco] Qabiria nasce come ibrido fra agenzia convenzionale e pool di freelance. Siamo stati ad entrambi i lati della barricata e conosciamo bene le dinamiche sia delle agenzie micro, come la nostra, sia di quelle più grandi e persino quelle delle multinazionali (io e Sergio ci siamo conosciuti in una di queste). La dicotomia freelance-agenzia ha veramente poca ragione di esistere. È vero, esistono tante agenzie “passacarte”, che non aggiungono alcun valore al lavoro del freelance. Ma anche in questi casi estremi, il collaboratore autonomo sta comunque godendo di un enorme vantaggio: quello di lavorare per un cliente che ha svolto l’attività commerciale per conto suo. Alla fin fine, non importa se chi ti paga è un’agenzia o un cliente finale: conta che ti paghi il giusto e che ci sia un rapporto lavorativo professionale e soddisfacente per entrambi. Un freelance può scegliersi i clienti. Se un’agenzia non lo soddisfa, ne ha altre decine di migliaia da contattare. È un privilegio non da poco.
[Sergio] Come agenzia cerchiamo sempre di essere “virtuosi” e di proporre tariffe e scadenze il più possibile ragionevoli ai traduttori. Purtroppo però a volte qualche traduttore approfitta della nostra tolleranza e mostra superficialità e una certa trascuratezza nei lavori che consegna, dimostrando di non aver neanche riletto il testo prima di mandarlo. Quindi colgo l’occasione per tirare le orecchie (in senso figurato s’intende!) a chi si macchia di questo peccato. Ci tengo comunque a precisare che si tratta di episodi sporadici. Con il tempo abbiamo selezionato validi collaboratori di fiducia su cui si basa la nostra forza.
Questa intervista fa parte della serie 5 domande. Facci sapere cosa ne pensi nei commenti oppure sulle nostre pagine Facebook, Instagram e Twitter.