5 domande a Francesca Crescentini

Traduttrice, bookblogger e dispensatrice di cuoroni

Perché continuiamo a comprare e leggere libri di carta? Le relazioni virtuali sono relazioni reali? Cosa hanno in comune i traduttori e i ninja? Ha risposto per noi a queste e altre domande Francesca Crescentini, in arte Tegamini: traduttrice, bookblogger e dispensatrice di cuoroni (è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo).

Cosa provi e cosa pensi quando vedi una TDM?

Mio malgrado, sono affetta dalla sindrome della vergogna riflessa. Per dire, i film di Fantozzi mi provocano un’angoscia quasi fisica, del patimento vero. E funziona un po’ così anche per le traduzioni. Nasco (e resto) goffa e sono convintissima che il fallimento  a diversi gradi di intensità  sia un’eventualità che riguarda tutti. Se mi metto a rifletterci su, accantonando per un attimo le mie paturnie, mi viene anche da pensare ai passaggi “pratici” che han portato una traduzione non felicissima in libreria. Un testo tradotto è l’esito di un processo complesso e figlio di determinate condizioni di base. Il traduttore dovrebbe poter lavorare con scadenze ragionevoli e una proposta economica dignitosa. E quello che combina dovrebbe essere revisionato, riletto e discusso con gli interlocutori di riferimento in casa editrice, una volta consegnato. Insomma, il traduttore ha il dovere di non essere un cane… ma è anche vero che i cani, in generale, non si abbandonano sull’autostrada.

Tra Instagram, Twitter e Facebook, hai circa 100.000 follower. Immagino sia una community abbastanza omogenea, fatta di persone che amano leggere e con un certo grado di cultura. Ma immagino che questi numeri ti espongano anche a hater, persone che criticano tutto per partito preso o gente dall’insulto sempre in canna. Come hai imparato a gestire il lato oscuro dei social network?

Da me, devo dire, c’è molta urbanità. Mi capita di rado di ricevere commenti sgradevoli postati col preciso intento di ferire. Quando capita, si tratta puntualmente di account fake che riservano a tappeto il medesimo trattamento a un vasto numero di altri utenti. A quel punto tendi abbastanza a sorvolare… Che vuoi dire a una persona che all’improvviso si sveglia, crea un account farlocco e passa la giornata a insultare il suo prossimo su Instagram? Allarghi le braccia e buonanotte. Al di là del mio caso specifico, però, esiste indubbiamente un gran problema di “senso civico”, a livello digitale. Resiste ancora la convinzione che le norme basilari della convivenza vadano applicate solo alle relazioni “reali”, mentre i social sono una specie di porto franco dove vale un po’ tutto  anzi, più sei becero più ti prendono in considerazione. Il messaggio che dovrebbe passare, secondo me, è che tutti siamo responsabili degli spazi che frequentiamo, virtuali o fisici che siano. E, di conseguenza, dovremmo cercare di prendercene cura.

Consigli per una comunicazione zen, online e offline (fonte)

[La lingua può insegnarci qualcosa sul vivere in comunità. Ne abbiamo parlato con Vera Gheno]

L’evoluzione tecnologica ci ha instillato l’abitudine ad avere ogni giorno un nuovo modello di telefono, computer o altro aggeggio elettronico. Il libro, invece, ha sostanzialmente lo stesso formato dal XVI secolo. È sopravvissuto agli ebook e ai tablet e, nonostante i dati su numero di lettori e vendite della case editrici in Italia siano abbastanza disastrosi, ha ancora mercato. Cosa lo tiene in vita?

Questa domanda potrebbe farmi sprofondare nel gorgo dell’autoanalisi ma cercherò di darmi un contegno. Sono convintissima che, a livello concettuale, non ci sia un formato di serie A (il libro “di carta”) o un formato figlio della serva (l’ebook o l’audiolibro). Allo stesso tempo, però, devo ammettere di provare una soddisfazione che rasenta il feticismo conclamato quando finisco un libro e lo sistemo sullo scaffale. O quando guardo la libreria e penso “ma guarda qua quanti sono, che benessere”. Il libro, probabilmente, è un oggetto che ha saputo far incontrare ragionevoli esigenze funzionali, smanie materialistiche e bisogni estetici. Nutre l’immaginazione  grazie a quello che contiene  ma ci fa contenti anche su un più vasto piano sensoriale, forse.

Questa domanda me l’ha suggerita Manuel, il nostro admin ad honorem. Quali abilità collaterali pensi siano utili oltre alla competenza in una o più lingue per lavorare nella traduzione? E quali interessi affini a quello delle lingue ha senso coltivare?

Manuel, sei Marzullo. In generale, credo ci voglia parecchia elasticità e una certo senso della realtà, del contesto. E anche un po’ di spirito da ninja. Il traduttore, in qualità di essere umano che padroneggia bene le parole, ha sicuramente una sua voce. Ma a nessuno interessa quella voce lì, quando si traduce. E va benissimo. Perché il tuo lavoro consiste, anche, nel trasportare il ritmo, il tono e la scelta dei termini di un’altra persona da una lingua a un’altra. Non significa che il traduttore debba essere privo di personalità o neutro come un congegno meccanico. Quel che deve saper fare, secondo me, è calibrarsi e diventare invisibile, perché è la voce dell’autore che deve venire fuori. I tuoi vastissimi e sconvolgenti talenti possono essere utilizzati per risolvere inghippi espressivi e rendere in maniera il più possibile corretta, fedele e leggibile il materiale di partenza che ti tocca. Insomma, illusionismo! Alakazam! Bombette fumogene! Megalomania controllata! NINJA.

Vivono al riparo dalla luce del sole, si nutrono di cibo da asporto, risolvono trame intricate muovendosi nell’ombra: praticamente dei traduttori

Il tema di questa domanda invece me l’ha suggerito la nostra amica Valeria. Durante una TedX del 2018 hai definito il tempo come il disco rigido di un computer. Il tuo, tra famiglia, gatto, lavoro, blog e social network, deve essere bello pieno. Eppure vedendo le tue storie viene da pensare che tu abbia una riserva inesauribile di energie. Dove nascondi la chiavetta USB extra?

Valeria, cuori a te! Sono un relitto, in realtà. Vorrei essere una di quelle persone benedette dal fato che dormono tre ore a notte senza stramazzare e che riescono a rendere produttive e utili al loro percorso professionalumano pure le code in Posta, ma appartengo allo squadrone degli organismi che dormirebbero fino a mezzogiorno e che tendono all’entropia. Col passare degli anni, però, ho scoperto l’ovvio: sono più efficiente quando mi occupo di qualcosa che mi fa felice e che faccio volentieri. CHE RIVELAZIONE, SIGNORA MIA. Non è detto che si riesca subito a riorganizzarsi in modo da campare di quello che ti rallegra  e ci metti pure parecchio a identificare quel campo d’azione lì , ma più ti ci avvicini, meno energie sprechi nel costringerti a “funzionare” in un contesto che ti pesa, cercando di compensare con la forza di volontà le tue carenze strutturali.

Questa intervista fa parte della serie 5 domande. Facci sapere cosa ne pensi nei commenti oppure sulle nostre pagine Facebook, Instagram e Twitter.


Scritto da

Ruben Vitiello

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Italiano a Barcellona, traduttore barbaro, amministratore della TDM.
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